martedì 1 ottobre 2013

GUIDO NAVARETTI

APPUNTI E CONSIDERAZIONI 1985 - 2005
CASE A SORANO, 1971. Acquaforte su zinco 270 x 240
Prima incisione realizzata in assoluto durante gli anni
all’Accademia di Belle Arti di Torino (1971 – 1975).
        


















Registro le mie giornate di lavoro adottando vincoli scelti, anni fa, tra materiali e strumenti che non richiedessero preparazione preventiva, mescolanze, diluizioni, pulizia e manutenzione. Tutto quanto da allora resta tale: il supporto orientato, la punta e l’inchiostro.
I tre vincoli assumono la particolarità di fornire comoda licenza dagli accidenti che sorgerebbero proporzionali all’adottare varietà di supporti e di materiali.
         Credo non mi sia congeniale essere equilibrista: costruire giostrando sulla sfera cromatica e dare svolgimento alla tipologia dei supporti. Occorre poi l’abitudine, nell’accingermi al lavoro, alle dimensioni e all’orientamento del supporto, giacché non sono sarto per tutte le taglie (e di tutte le borse). Mi importuna scegliere in partenza, così subendo, di volta in volta, il contenitore di diversa dimensione, gli strumenti ed il materiale da stendere sulla superficie per registrare nel tempo il mio intervento; iniziare ripetutamente a prendere confidenza, proporzione e conoscenza con materiale e condizioni di lavoro sconosciute.
Le variabili non mi risulta siano occasioni per nuove possibilità espressive ma, viceversa, stati inopportuni che si presentano nei momenti dove l’uso del materiale non può assolutamente coincidere con la sua conoscenza; né credo proficua una forma di espressione che identifichi conoscenza e uso. Concentrato nel lavoro devo darne applicazione il più possibile scevra da accidenti: non tradire i segni edonistici del domatore, ma, semmai, tentare quelli del virtuoso.
         Credo che l’unico rischio da affrontare sia la continuità; l’unico obiettivo la ricerca di un’articolazione del discorso figurativo svincolato da grammatiche materiali complesse per quantità e molteplicità di variabili, ciascuna propria e caratterizzante una tecnica.
L’adozione ridotta dei materiali di lavoro (al limite della possibilità del tracciare) e, di conseguenza, il massimo numero di vincoli, pone immediatamente in condizioni di registrare il mio intervento.
         Mi è fonte di stimolo non la novità e la ricchezza materiale, ma la necessità di racconto da esprimere in condizioni scontate per abitudine.
         Le riproducibilità è duplice necessità: d’ordine pratico e insieme etico per consentire eventualmente a chi lo desideri comoda e privata lettura, superando la contingenza dell’esposizione temporanea, e per conservare all’autore integra raccolta delle sue tracce, che avverto fondamentale dover mantenere sempre possibile e ordinata come riferimento del divenire del lavoro.
Maggio, 1985

ALBERO1971. Puntasecca su zinco 245 x 320
Prima puntasecca. Dal vero in una sola lezione
nel cortile dell'accademiasotto lo sguardo critico
di Mario Calandri e Francesco Franco



         

















Altro ritmo del pensiero e nel movimento procura il bulino. Allo scorrere, al curvare, al deviare, al fermarsi della traccia, è da considerare la sua “dimensione verticale”, connaturata alla sua natura di strumento di scavo. Scavo che implica un impiego ulteriore di energia che, a rischio, s’impara non debba essere forza bruta; ché il ferro come fiera maltrattata, si imbizzarrisce potendo andare, con volo irrazionale, anche a ferire.
Energia non tanto muscolare esercitata da braccio-avambraccio e mano, ma coinvolgente tutto il corpo: dai piedi che pareggiano la spinta dell’arto superiore, alle natiche che sono fulcro tra spinta e appoggio inferiore. Energia che viene applicata allineando e avvicinando il più possibile il punto di appoggio del ferro al baricentro del corpo.
         Il segno lo si sente crescere e procedere “dentro”, connaturato a questo sistema di leve così organizzato, e questo per tutta la “durata” delle tracce e per ognuna di esse. Se si rompe questo equilibrio non si controlla il ferro.
Letteralmente non ci si può scordare di una parte di sé, perché tutto l’organismo è sistema equilibrato in movimento che, solo, può permettere il controllo del segno. Tale controllo esime dall’impiego di energie mal concentrate ed annulla ogni valore di credibilità a “mitiche fatiche” che paiono prospettarsi iniziandosi allo strumento.
         Segno del pensiero che non si posa, ma si scava. Che si pensa, si vede, ma che poi occorre scavare. Ed allora, per evitare che il tempo di scavo esaurisca pensieri e visioni balenate o peggio per evitare uno scavo che semplicemente traduca segni tracciati altrimenti, ho tentato di scavare pensando.
Febbraio, 1989

TESCHIO, 1973. Acquaforte su zinco 225 x 220
Dal vero alla scuola di anatomia.


















L'operare per segni a bulino, prima o poi, comporta il richiamo a norme esecutive di riferimento che sono radicate nei modi di una tradizione storica plurisecolare e la normazione cui è stato vincolato può legittimamente suscitare interrogativi sulla natura del segno che vado operando, cosa che il solo utilizzo di pennino ed inchiostro avrebbe esentato.
Il segno deriva da una scelta, operata nel 1981, quando, disegnando con pennino ed inchiostro, sono giunto ad impiegare, con continuità, l’evidenza dimensionale del segno che giudico anche ottimale nel mio operare sulle matrici. Tralasciando di trattare della tecnica con cui realizzo il segno a bulino, esaurendosi questa, in null’altro che nell’operare del ferro, propongo alcune considerazioni, suscitate e stimolate da richieste che ritengo non solo curiose.

         La derivazione del segno a bulino dalla precedente esperienza - che non ha comportato “forzature” tecniche né nell'incisione, né nella stampa - ha, per me, motivazioni legate non solo alle mie possibilità operative, ma ragioni che intendo anche cercare di giustificare sul piano della forma etica.

Due sono i livelli che, nel mio ragionamento, riesco ad evidenziare:

a) - se il segno è di scarsa o nulla evidenza, per dimensione, descrittibilità e contrasto, la sua costituzione sintattica e la sua stessa stesura possono indurre o rendere indispensabile il ricorso a strumenti che consentono di alterare o di celarne l’evidenza, in condizioni di normale leggibilità. Stessi risultati comporta l'uso di strumenti traccianti che, per i limiti di acuità dell'occhio, rendono inintelligibile la superficie incisa e stampata in condizione di normale “messa a fuoco”.
         La superficie che non denuncia e non rivela chiaramente l’elemento segnico costituente l’immagine, evoca la struttura dell’informazione visiva così come viene registrata a livello retinico. La perdita di evidenza e di corporeità del segno possono rendermi scontato il ricorso ad elementi figurativi imitativi e descrittivi, simili a quelli fotografici, di cui potrebbero - per tale natura caotica ed indeterminata del segno - diventare interpretazione, citazione o semplice traduzione. In tale ambito il segno si mimetizza, acquisendo valore mistificatorio.
In assenza della possibilità di leggerlo emerge, dall’osservazione del lavoro, lo stupore. Lo stupore di ritrovare sul foglio l’impenetrabilità dell’equivalente brano naturale; lo stupore di essere riusciti a ridare all’occhio ciò che l’occhio ha registrato sulla retina.
         L’esercitazione sulla resa illusionistica è quindi destino o scelta d’inevitabile tributo ad una procedura inintelligibile all’occhio del fruitore.
b) - credo che, cercando di non cadere nell'applicazione del segno-segnale, il mantenere ad un livello più equilibrato il rapporto con l’evidenza segnica, mi offra maggiori occasioni di evitare le nevrosi di cui sarei preda nell’inseguimento della riproduzione imitativa ed illusionistica del dato visivo, ove il vincolo delle apparenze finirebbe col costituire fastidioso gravame. Mi riferisco ad un livello della dimensione del segno e della sua organizzazione che non rinneghi, defilandola, la sua natura grammaticale e significativa, permettendone chiara e naturale lettura.

FIORE, 1975 – 76.
Bulino su zinco 150 x 195
Primo uso del bulino con rischio di stigmate
(la cicatrice non se ne è più andata)
ESTATE, 1976.
Acquaforte su zinco
dimensioni variabili tra 245 x 330 e 210 x 250
Serie di 6 lastre con tentativi di applicazione di colore.


















         





         Rilevo che evidenti differenze emergono nei destini che seguono ad una scelta.
Quando s’assiste all'azione di un bravo illusionista ci si scopre più soddisfatti ed appagati dallo stupore che suscita anziché per quanto rappresenta: non interessa tanto il “coniglio”, quanto la sorpresa di vederlo uscire vivo, vegeto e grazioso dal “cappello a cilindro". L'operatore di tale tipo di rappresentazioni si connota, ed è connotato, per bravura e abilità, non per la particolarità di cosa esprime

         Credo possa essere condivisa la considerazione che la rappresentazione più è illusionistica più richieda un atteggiamento teso all’esecuzione dell'immagine da raggiungere, non al tentativo di generare un’immagine da conquistare.
Tale indirizzo al lavoro richiede soggetti preventivamente selezionati, preparati alla bisogna, studiati, documentati e organizzati in modo tale da conservare nel tempo le dimensioni, l’orientamento e l’equilibrio chiaroscurale. La particolarità dei soggetti rappresentati ha in ogni caso una sua importanza perché, si converrà, l’esibizione risulterebbe viziata da un ché di fastidioso se, dal “cilindro” l’illusionista cavasse fuori una pantegana, anziché il coniglio.

L’esecuzione quindi è esaltata se la scelta sarà operata su soggetti ad alto valore simbolico ed affettivo, desunti dalla rappresentazione di ciò che era, di ciò che è stato e di ciò che questo è diventato. L’immagine che ne nasce è conservatrice, nei casi migliori è venata da malinconici rimpianti, antiquariale e documentale; negli altri è banale e patetica.
Il procedimento esecutivo condiziona l’operatore in una dimensione innaturale, dotandolo di protesi oculari a molti ingrandimenti, di strumentazione grafica, di preparazioni del supporto e di fasi operative tendenti ad avviare e conservare le possibilità di lavoro che consentano di operare il segno, altrimenti inintelligibile in condizioni normali.

         Che dire del destino dell’altro?

Ottimisticamente credo rimanga ogni potenzialità, privata del “cappello a cilindro” che ne faccia da mediatore.

Rappresentazioni di brani di un’esperienza umana hanno necessità di trovare mediatori attivi:
- che ne operino la lettura e l’analisi, privi del pregiudizio che porta ad accettare il prezzo che volentieri si paga per fruire conferme e piaceri noti e rispondenti alle attese; - che li assumano disposti a cercare non solo conferme, resistendo alla passiva sicurezza delle apparenze, e se ne approprino senza l’esclusivo appagamento dello stupore e dell’emozione nostalgica o patetica, consci che l’immagine è elemento conflittuale da governare in un rapporto relazionale irrisolvibile ed inesauribile.
- che li collochino, rivestiti, nella sfera della loro esperienza, come essenze stimolanti.
- che ignorino le operazioni “sottotraccia” e che, nella visibilità del segno, accettino l’inconciliabilità tra segno di progetto e segno realizzato, rifiutando il disperato tentativo di annichilire la percezione della traccia col ricorso a protesi oculari.
- che fruiscano di un’immagine che restituisca il filtro dell’esperienza che l’ha vissuta e assimilata, superando l’ostentamento illusionistico dell’apparenza retinica.



COPRICAPO PER SIGNORA (op. n° 1), acquaforte 134 x 96
Inizio della numerazione progressiva delle incisioni in ordine di realizzazione
Credo debba essere mantenuta la visibilità del segno anche ai più presbiti che possono imbattersi in esso, sia per onestà che per necessità: il segno non è un paria, buono soltanto ad esistere come componente infinitesimale per superfici a struttura caotica, da sfruttare ad ogni scopo illusionistico. Il segno è registrazione tentata  e limitata d’una intenzione: è parola letta e recitata; è notazione. E scrivere o leggere un testo, con sul naso “lenti” da ingrandimento, è operazione incongrua, al più necessaria ad un impiegato della Zecca o ad un falsario.


Il segno è preghiera che, se si ha fede, ha bisogno e coraggio di “recitare ad alta voce” perché Dio non sia almeno infastidito dai “sommessi brusii” che si levano tra gli “oranti” e irritato dalla perdita di senso dell’operazione con la cantilenante, mascherata ripetitività, ipocrito rimedio alla mancanza di fede.

Il segno è un atto di senso e di consapevolezza che ha da essere mostrato nella sua evidenza corporea, che, come tale, potrà non piacere, ma che mai, vergognoso, dovrà essere esiliato nell’illeggibilità.

Credo fiduciosamente che valga la pena semmai di offrire segni anziché esibire inarrivabili abilità che scimmiottino coni e bastoncelli, il granulo di alogenuro d’argento o il pixel, nella convinzione che il segno è dell’uomo il quale mai potrà ridursi o identificarsi con una retina, una pellicola fotografica o un Charge - Coupled Device.
Settembre, 1986 – Novembre 1991 – Dicembre, 1997
 
SELF MADE LEDA, 1981. Disegno inchiostro su carta (foglio cm 50 x 70)



         









Lavorando con tecnica diretta su matrici metalliche viene a porsi lo scarto rilevabile tra queste e le relative stampe su carta. Scarto che non equivale alla polarità positivo-negativo che si evidenzia dall’esame di matrici e di stampe elaborate con altre tecniche, ma che intendo porre come duplice inversione di significato tra segno scavato VS segno stampato e tra superficie risparmiata sul metallo VS superficie bianca sulla carta da stampa.

Sulla matrice il segno è luce, che s’è tolta solo materia con lo scavo. La finestra di fronte ne dà, sull’altezza del segno, almeno tre valori chiaroscurali: a partire dall’alto, prima lo scuro, poi un sottile tono medio ed ultimo, l’abbacinante riflesso metallico.
E’ un segno vitale e mobile nel variare dell’orientamento dei segni e della lastra, rispetto alla fonte di luce.

Sulla carta il segno è elemento riportato, appiccicato dalla pressione del torchio dotato di uniformità di tessitura e di tono in tutta la sua altezza.
E’ un segno statico, rappreso e fermo al variare del suo orientamento, muto alla fonte luminosa.
 
ERPICATO, 1982. Disegno inchiostro su carta (foglio cm 50 x 70)

La prima inversione di significato è prodo
tta dunque dalla perdita di vitalità luminosa del segno, nella sua opacizzazione, acquisita nella matericità dell’inchiostro da stampa.

Sulla matrice la superficie risparmiata, che separa valori d’ombra e baluginii metallici, ha valore neutro, vergine; caratteristico del materiale non lavorato: spesso poi i giorni di lavoro e l’esposizione all’aria iniziano processi di ossidazione che la rendono grigia e non riflettente.
La superficie, stampandosi sulla carta senza lasciare traccia, acquista una serie di differenze apparenti di luminosità che le conferiscono vitalità e vibrazione: questo per le delimitazioni che, segni opachi, variamente organizzati, e fortemente contrastanti per colore procurano.

La seconda inversione di significato è prodotta dall’acquisizione di vitalità luminosa della superficie risparmiata che perde di neutralità quando è stampata sulla carta.

Si realizza così un’inversione incrociata di significati tra segno inciso-segno stampato e tra superfici risparmiate sulla lastra-superfici stampate sulla carta; dove l’inversione è provocata dallo scambio - tra matrice e stampa - di valori luminosi (dell’indice di luminosità) tra segno inciso e superficie risparmiata: dove cessa di brillare il segno inciso, “s’accende” il riflesso della carta.

SPAVENTAPASSERI, 1983. Disegno inchiostro su carta (foglio cm 50 x 70)

         Tale scambio mantiene e conferma la parità estetica tra matrice e stampa, giacché non si verifica dono unilaterale, con perdita e guadagno dell’una sull’altra.
La coerenza che posso raggiungere sulla lastra può trasformarsi in equilibrio “altro” sulla stampa, dimostrando di godere entrambi di dignità ed indipendenza estetica.
Non mi è possibile operare una scelta che escluda la stampa, perché considero l’operazione di scavo come fase di un processo che non può non fare seguire al segno scavato quello stampato e, alle aree di metallo risparmiate, la luminosità riflessa dalla carta.
Non credo mi sia possibile raggiungere un livello di esperienza che consenta, a priori, di compiere la lettura dell’inversione incrociata dei significati per ricavarne indicazioni operative per organizzazioni di segni utili: la stampa riserva sempre sorprese.
Volendomi garantire la possibilità di conservare la stampabilità della lastra - ovvero di mantenerne la natura di matrice - avanzo nel lavoro tentoni, riempiendo per quel che è possibile i segni già scavati e procedendo per stampe di stato prima di riprendere a scavare. Il cammino è reso così frastornante da tale ambiguità che, spesso, impeti di irrazionalità e l’inerzia stessa dello scavo, possono indulgere nel convincere di stare realizzando un oggetto svincolato dalla funzione di matrice.
Il lavoro e l’attenzione condotti unicamente sulla lastra di metallo, possono portarmi a conseguire risultato unicamente verificabile sulla medesima o su stampe bisognose di ritocchi.

VALICO, 1984. Disegno inchiostro su carta (foglio cm 50 x 70)
         Spesso la sorpresa generata dalla percentuale di imprevedibilità che la stampa rivela, su organizzazioni segniche scavate - e come tali giudicate ed assimilate per proseguire nello scavo - mi fa balenare soluzioni che vorrei definitive, modelli da riutilizzare, postulati risolutivi.
La comparazione tra segni sulla matrice e segni sulla carta può eliminarmi dubbi ed incertezze emerse nella fase di scavo: dubbi sulla “tenuta” delle loro organizzazioni, sulla stabilità del loro significato, sulla loro dignità ed autonomia. Ma può anche generarne, sconcertandomi, perché spesso accade che certi bianchi (certe luci sulla carta) possono emergere con troppa forza da varchi limitati sulla lastra, o diluirsi oltre misura tra segni troppo lontani.

         E’ una sottile alchimia che, a piccole dosi e mescolando letture di matrice e letture di prove di stato, consente, nello sviluppo del lavoro, di non acquisire o di tenere sotto controllo valori indesiderati; di non oltrepassare il limite - per altro non perfettamente controllabile - che, sempre, fa percepire di maggiori dimensioni il segno scavato (perché più luminoso) rispetto a quello stampato e di maggiore estensione le superfici stampate rispetto alle analoghe risparmiate sulla matrice (perché più luminose).

         Occorre mi mantenga in equilibrio ed equidistante dai fascini diversi esercitati da matrice e stampa; fascini che considero vadano percepiti e fruiti separatamente, con discrezione.
Godere moderatamente della lettura dei segni scavati mi consente di integrare questo piacere con quello provocato dalla lettura delle loro impronte sulla carta da stampa.
Gennaio 1990

TARLATANA, 1984. Disegno inchiostro su carta (foglio cm 50 x 70)



        












 Variabilità all’organizzazione segnica che si vuole uniforme si innesca e si sviluppa dalla disposizione dei segni che ne saranno gli elementi costituenti.
Il procedere da sinistra a destra produce altra organizzazione che la procedura inversa; così accade nel far seguire verso il basso, anziché il salire verso l’alto “file” di segni. Ad un “feroce autocontrollo” spetta poi l’automatizzare ritmato dell’atto che scandisce segno ed intervallo, ché, altrimenti, ulteriore variabilità viene ad arricchire ed ad allontanare il proposito iniziale di organizzazione piana ed uniforme.
Autocontrollo che si dimostra, al pari d’altre proprietà, soggetto a cicli schematizzabili in fasi di avviamento, di culmine e di decadimento: al proposito segue il rodaggio e l’affinamento del gesto che avvia il ciclo che, raggiunto il culmine, dove il proposito compiutamente si traccia, cala, decadendo in concentrazioni o diradamenti dei segni e degli intervalli, per inerzia ed assuefazione allo stimolo.

         Ad organizzazione segnica avviata, soccorre ed inganna quanto, di essa è già presente sulla lastra. Guida ed assieme trappola il già realizzato: testimone attendibile ed ausilio al procedere, maestro nel dimostrarti le possibilità di concretizzazione del proposito, ma anche contenitore di quanto prodotto avviando ed esaurendo i cicli attenzionali che, surrettiziamente, possono portare in direzione insolite ed insospettabili. A volte mi sono trovato a limitare gli sviluppi delle tracce che andavano ruotandosi oltremisura, contraddicendo l’intenzione di unidirezionalità con cui ero partito e che ero convinto di stare mantenendo.

         Subdolamente emergono poi in verticale e in ogni altra possibile direzione, il ritmo degli intervalli, delle piegature, delle concentrazioni e dei diradamenti dei segni. Sono organizzazioni che rappresentano un secondo livello segnico, percepibile da ciò che, per esempio, poteva essere la ripetizione di un tratto con andamento orizzontale, e, come tali, suscitatrici di altre configurazioni, di equilibri luminosi, di riferimenti figurativi. Questa percezione tentatrice rende spesso sproporzionato per difetto e paradossale ciò che la origina, ovvero sia il proposito che la traccia, tanto che viene voglia di provare ad articolare direttamente, stimolati da un senso di risparmio fuori luogo.
Il rischio è di scoprire, procedendo in questo senso, che non solo non s’è risparmiato nulla, ma di vedere formarsi altra organizzazione segnica: organizzazione alterata, come di calligrafia imitata. Se sono occorsi, ad esempio, tre interventi successivi per completare un segno, altra cosa ottengo articolandolo con un unico movimento. Non che tale articolazione debba essere necessariamente rifiutata, mantenendo evidenti i vincoli di familiarità con la precedente, ma è altra cosa: di fatto un nuovo elemento segnico, da intendere proprio di un nuovo primo livello articolatorio.

         A lavoro avviato, oramai ai limiti della possibilità di controllo nel coordinare l’uniformità progettata delle tracce, altre fonti di variabilità sono da considerare.
Il filo tagliente dello strumento tracciante esplica al meglio la sua funzione per un numero limitato di segni. Essa non cessa repentinamente, ma si avverte via via calante. Tra un’affilatura e l’altra il ritmo delle tracce - che è ritmo di entrata e di uscita dalla matrice - trova via via ostacolo nel calo di funzionalità dello strumento. Ostacolo che si traduce nel rallentamento del ritmo di stesura, in una variazione dello stato di autocontrollo, in un irrigidimento del segno, in una accresciuta profondità dello scavo ed in un aumento del rischio di perdita di controllo del ferro. Con la progressiva riduzione delle possibilità di intaglio avviene, in sequenza, che il ritmo segno-intervallo cala, aumentando il tempo di scavo; che l’autocontrollo aumenta nel tentativo di governare lo strumento; che il segno aumenta di profondità perché maggiore forza occorre per entrare nel metallo e che la forza applicata, accresciuta per l’irrigidimento dell’articolazione del polso, attenua la sensibilità del segno, accrescendo i rischi di perdere il controllo della traccia.

FISCELLA, 1985. Disegno inchiostro su carta (foglio cm 50 x 70)

         Il calo di funzionalità del bulino è fonte anche di variabilità nel punto di entrata nella matrice, ovvero nella traccia, di spessore crescente, da cui ha inizio il segno; traccia corrispondente all’applicazione progressiva dello sforzo che rivela per prima, nel punto ove si saggia il metallo, il consumarsi del filo dello strumento.

         Ruolo principe lo svolge l’operatore, laddove lo scopo non sia quello della traduzione; dell’uso di organizzazioni segniche da manuale, della realizzazione di esecutivi con tracce guida realizzate all’acquaforte e con gli spessori del tratto raggiunti con ferri di sezione progressivamente maggiorata.

         La traccia scavata nel metallo esprime la ricerca ed il tentativo di armonizzarsi con i propri ritmi. Ritmi del disporre i segni uno dopo l’altro; ritmi del lavoro giornaliero sulla lastra che viene ad accumulare, nelle settimane, brani di avvio, di serena e piana stesura, di stanchezza e di ripresa, di speranza, di soddisfacimento, per un insieme pulsante per indirizzo e variabilità, omogeneità e disarmonie che, avviandosi a saturare la superficie disponibile, occorre “chiudere” con uno sforzo di lettura riassuntivo che tutto calmi e stabilizzi, dando privilegio ad un nome che dia titolo all’abbandono, senso al rimorso di lasciare e carica per nuovamente cominciare altrove.

         I propositi iniziali, per non diventare fonte di frustrante impotenza, vanno posti e perseguiti con la serena consapevolezza che il Tempo e la strada da percorre sulla lastra, influiranno sulla loro teoretica chiarezza. Tempo del lavoro ed il lavoro del Tempo, apriranno imprevedibili sviluppi che - del proposito iniziale - lasceranno intatto solo la spinta ideale, non i freddi e inumani condizionamenti.
Marzo, 1992

OFFERTA, 1986. Maniera a penna ripresa a bulino, 650 x 500













Il titolo da destinare al lavoro sorge alla mia attenzione evocato dalle tracce presenti sulla lastra e dalle prove di stato. Non a lavoro concluso, ma nella fase dove cessa la formazione generativa ed accrescitiva dell’immagine: un po’ come avviene quando, al termine della gravidanza, devi scegliere il nome da dare al figliolo in arrivo.

         Sono le organizzazioni segniche che scavo e che cerco di organizzare e articolare secondo i ritmi giornalieri e la progressiva saturazione della superficie disponibile, a consentirmi di vedere emergere il senso preponderante che mi indirizza alla titolazione.
Non avendo l’intenzione di procedere ad un lavoro a “programma” o di dare corso ad un esecutivo; non avendo, in altri termini, temi da sviluppare e immagini di partenza da tradurre, ma solo segni nella loro oggettiva evidenza, non ho titolo preordinato, ma un ritmo giornaliero.

         Le tracce le eseguo per necessità di scaricare energie; al soddisfacimento di quel sensuale appagamento che, credo, finisce sempre col determinarsi in chi opera con continuità d’uso con strumenti e materiali. Le tracce le organizzo mosso da istinto articolatorio, alla ricerca di accordi e di brani che diano inizio ad un movimento. Raggiunta questa fase, anche in aree separate della lastra, la titolazione compare vaga, sorgendo da queste spesso in termini tra loro incompatibili, o, al più, indicando un ambito generico di significato. Proseguendo nel lavoro giunge il tempo in cui, quanto scavato, finisce per non consentire più altro segno che non serva a confermare un nome, a rafforzare un senso, a rivelare una scelta: compare così il titolo.
E come nel passeggiare insorgono, ad una certa ora, esigenze pratiche riferite ai tempi e ai modi del rientro, qui altre impongono di tornare, di riemergere alla dimensione unitaria della superficie: il titolo acquisisce funzione di guida e di riferimento nel raccordare e cucire assieme quanto scavato nel tempo; nel riclassificare e nel giustificare, scavando ancora, per chiudere l’esperienza.
Quest’ultima fase compiuta sulla lastra, costituisce una sorta di consuntivo su un’esperienza più o meno lunga, frazionata ed eterogenea nei tratti e più o meno soddisfacente, ma tale sempre da consentire di ricominciare altrove.

         Il titolo è il nome che dà senso all’abandono per compiere altro itinerario. Costituisce una sintesi ed un ausilio, anche mnemonico, che condensa l’indicazione del luogo e del vissuto della tappa  sulla via del viaggio in corso.
Febbraio, 1995

CERCANDO TRICOT, 1988. Bulino su zinco, 650 x 500








Autopresentazione mostra collettiva “Luoghi, Una Generazione di Artisti Torinesi”; Amici della Civica Galleria d’arte Contemporanea di Torre Pellice 1995.

         Doveroso per me, nato a Torino nel 1952, nominare i “padri”: Francesco Casorati, Mauro Chessa, Giacomo Soffiantino, Enrico Paolucci, Gino Gorza, Sergio Saroni, Mario Davico, Mario Calandri, Francesco Franco, Nino Aimone, fonti di formazione ed esperienza, non solo specifiche, al Liceo e all’Accademia. Educazione rientrata in circolo dall’altra parte della cattedra e che, oramai da vent’anni, costituisce ruolo importante anche al di fuori del servizio.
Di fatto i circa quarantamila chilometri percorsi per anni, pendolando tra lavoro e residenza, sfrondano definitivamente tutte le idiosincrasie, i dubbi e finanche le insicurezze sul come orientarsi e sulla confusione con la quale, fresco di studi, mi trovavo ad operare. L’esigenza di lavorare, testimoniandomi anche attraverso tracce da lasciare su un supporto, ha trovato, paradossalmente, le migliori condizioni proprio, quando il tempo era meno disponibile.

         Fine della gioventù e, dal 1971 al 1986 occasioni espositive soprattutto in sedi pubbliche e dall’istituzione patrocinate nella Regione, ma anche a Glasgow, Colonia, Madrid con disegni ad inchiostro e penna.
Il 1986 è anno di malattia e di paura, ma anche di guarigione e speranza; anno ove gli affetti e l’operare trovano più profondi e vitali agganci; anno della prima personale, ancora con disegni; anno del ritorno all’incisione che, dal successivo, costituirà esclusiva tecnica di lavoro e che troverà riconoscimento internazionale replicato nel 1990; anno che inizia il rapporto con Franco Masoero: amico, stampatore, gallerista, editore e mentore che, correndo i suoi rischi, edita nel 1989 una monografia ed inizia a presentare i miei bulini in ogni occasione e sede con tenace ed irriducibile fiducia: dal Salone del Libro di Torino al Diplo Spring Art Book Fair di Firenze, dalla Carta dell’Artista a Parole nel Tempo di Belgioioso, dal IV° Salon International de l’Estampe Contemporaine di Elancourt a Saga 95 di Parigi, e, ancora, Carte d’Arte a Ferrara Fiere, Habitat alla Galleria Estense di Ferrara, Arte Fiera ’95 a Bologna, Le Edizioni Masoero alla Biblioteca dei Frati a Lugano e alla Biblioteca Comunale di Palazzo Sormani a Milano. Decennio ricco di occasioni espositive in manifestazioni internazionali a Vico d’Elsa, Budapest, Biella, Cracovia, Katowice, Varna e nazionali a Roma, Acqui Terme, Bagnacavallo.

Decennio da incisore che va concludendosi e che mi trova, come sempre, a raggranellare tutto il tempo disponibile da dedicare al bulino con lo scopo fondamentale di soddisfare l’esigenza insopprimibile di lasciare segni: tracce che costituiscono il segno del mio tempo, del trascorrere l’esistenza.
Marzo, 1995

INTERTIDALE, 1988. Bulino su zinco, 650 x 500








Realizzando da studente, per otto anni, esercitazioni grafico-pittoriche condotte su modelli e, dal 1975, coinvolgendo gli allievi sostanzialmente sulle stesse cose, ho via via maturato la consapevolezza ed il dovere che quest’impegno scolastico, nonostante tutto, finisce con l’essere parte di me: come operatore di un processo d’acquisizione e di trasmissione di cultura figurativa che, con metodi e tecniche sostanzialmente immutate da secoli, va ripetendosi nell’offerta, che potrebbe titolarsi nel “ così s’apprende a disegnare“ e nel “così si disegna “. Processo di conoscenza che nel modello fisico di riferimento, visibile e misurabile, ha il termine comune attraverso il quale esso si acquisisce e si realizza.

Affermando che la scuola non ha come obiettivo quello di sfornare artisti, ma individui che hanno acquisito abilità di traduzione e l’uso di tecniche e di strumenti propri e specifici all’arte, e che la “partita” va ad iniziare con l’esaurimento del periodo di esercitazione scolastica - quando queste abilità, che ti trovi tra le mani, devi giocartele in autonomia - sono cosciente che molto del condizionamento scolastico rimane, perché costituisce, confortato dai risultati riscontrati tra le mura della scuola, quello che meglio si sa fare.

Terminati gli anni dove in ogni caso, alla fin fine, anche l’alibi dei programmi ministeriali giustifica di per se la “copia dal vero”, (definizione infelice, ma indicativa della cultura che la ha formulata e da accettare solo se si presuppone l’esistenza assurda de la “copia dal falso”), la contraddizione va affrontata, trovandoti libero e solo a dover gestire il desiderio e la necessità di operare in ambito “artistico”.
L’arte e l’operare dell’artista provocano poi reazioni che perturbano il tranquillo tran tran scolastico, dimostrandoti dell’uso alternativo che è possibile tentare di tali elementi linguistici e generando dubbi e riflessioni sulla necessità di operare su posizioni giudicate passatiste ed ormai inattuali e la carica per tentare il rischio dell’ignoto.

Non svolgendo il tuo operare secondo le fasi di un tempo che, dal committente alla commissione, predefiniva tecnica, soggetto, dimensioni e finanche la collocazione del tuo lavoro, finisci a dover lavorare come committente di te stesso, col gravoso compito, soprattutto psicologico, di amministrare una gran libertà di scelta operativa.
Su di essa può agire con maggior profitto l’esercizio di libertà dell’autocommittente, senza i laccioli della ricerca di un “soggetto” da cui partire, come avveniva a scuola.

DUNA NERA, 1999. Bulino su plexiglas, 180 x 140
Primo bulino su plexiglas.

La ricerca dei modi e dei mezzi d’espressione dell’arte hanno sempre a che fare con un’oscillazione tra metodo-mestiere, d’origine scolastica, ed esercizio di libertà, che agisce sulla maturazione successiva: che è poi la conquista di un margine d’autonomia dagli stilemi e dai riti della scuola, nel tentativo di lasciare tracce nella ricerca della definizione della personalità.
Il condizionamento d’origine scolastica e ambientale, frutto di ex insegnanti e colleghi che stimo e che hanno proseguito la strada della resa illusionistica, raggiungendo livelli “inarrivabili” per mestiere e abilità, si è verificato in tutti questi anni e finisce sempre con l’interagire, stante la comune formazione e la contiguità ambientale in cui insieme si opera.
In altri termini sono molti tra colleghi ed artisti che, con il loro lavorare, evidenziano una scelta che parte con l’obiettivo, dichiarato ed esibito, di riprodurre, spesso anche un’immagine fotografica. Supportati da un’abilità e da un’esperienza tecnica specializzata, realizzano la loro “libertà” nella scelta preventiva del ”soggetto”, rimanendo, per il tempo dell’esecuzione, condizionati ad un’immagine già presente e di riferimento, che occorre tradurre: proseguono, in tal maniera, l’esperienza iniziata a scuola per elaborati che ora hanno, per sensibilità, raffinatezza ed abilità addestrata, caratteristiche professionali.

Un’educazione pluriennale di questo tipo educa a tradurre in modo “giusto”, verificabile, quel che vedi.
Questo modo di esercitarsi consente però anche la formazione di un’esperienza che prescinde dal soggetto. Rapporti e proporzioni, contrasti chiaroscurali, tagli compositivi, gamme tonali, tessiture grafiche (per non parlare del colore) costituiscono gli elementi strutturali d’ogni linguaggio figurativo, bagaglio indispensabile per esercitare in campo progettuale.

In questi anni post-scolastici, concentrato sull’articolazione degli elementi grafici, non ho dato importanza alla necessità di realizzare un’immagine preordinata oltreché nel nome anche nel taglio compositivo, in quello luministico, ma questa l’ho lasciata emergere, leggendo, con calma e a stesura avvenuta, l’insieme delle articolazioni grafiche, usate come stimolo, finanche nell’attribuzione del nome (del titolo).

Il mio “grado di libertà” agisce come elemento primario, guidando l’agire sulla superficie. Non ho soggetto, né orientamento del supporto, né composizione o studi preparatori, ma segni, loro articolazioni, e i ritmi di stesura che, giornalmente, riesco ad impostare e a condurre.
Le mie “abilità” non sono al servizio del soggetto, ma, viceversa, nel recuperarlo da un’articolazione ritmica di segni.

Certo è che i due mondi sono confinanti, almeno in fase propositiva. Possono esserlo perché ampia è la zona psicoperativa comune: la conoscenza di una foglia, ad esempio, può generare il bisogno e la volontà di rappresentarla, magari utilizzando tecniche che meccanicamente ne permettano l’impronta o altre che ne riproducano la microtessitura segnica. Risolti i problemi di conservazione dello stato tissutale della foglia e del mantenimento della sua condizione chiaroscurale, è possibile avviarne la traduzione; ma, viceversa, é possibile arrivare altrimenti alla foglia, operando “segni fini a se stessi”, senza la presenza fisica della foglia, che possono poi stimolare e/o condurre alla lettura del significato foglia, attraverso un richiamo mnemonico (riproduzione mentale) della preesistente e comune conoscenza della foglia.

Nel primo caso l’immagine è già presente e va realizzata con autocontrollo e metodo, tutto orientato sull’obiettivo visibile e da centrare, possibilmente senza errore.
Nel secondo l’immagine da perseguire non esiste e va scoperta. Non è possibile adottare alcun piano di lavoro teso ad una sua realizzazione, ma applicare procedure di autocontrollo che seguono, senza rigidità, le fasi ritmiche e naturali della sua messa in opera, del suo sviluppo e del suo esaurimento. Nulla è da sacrificare ad un traguardo inesistente. La metodologia di lavoro si conforma alla condizione psicofisica ed investe superfici del supporto non necessariamente impostate a priori, per un programma di lavoro aperto, teso a realizzare un obiettivo autorganizzantesi. Il lavorare ha termine, quando - tra le immagini possibili - una si rivela con maggiore forza, non, quando è raggiunta l’immagine scelta in partenza.

DISCESA A MARE, 2004. Bulino su plexiglas, 225 x 175
La componente culturale e ideologica è decisiva nella scelta. Accingersi ad una traduzione, dopo aver coinvolto tempo ed energie nella ricerca del testo (immagine) da tradurre, indirizza ad un obiettivo prefissato e, necessariamente, spegne ogni empito di libertà operativa, costringendo l’operatore ad un feroce autocontrollo che deve guidare senza scarti all’obiettivo, applicando “tabelle di marcia” collaudate e funzionali allo scopo.
Questo lo considero “lavoro”: nel senso di mestiere che, come tale, non esenta dalle componenti stressanti, che sempre genera il dover operare senza possibilità di scarti.

Operare senza meta preordinata, tracciare elementi segnici che necessariamente non dovranno, da programma, “stare per”; organizzare superfici senza che, fissato, debba esistere un “sopra-sotto”, un “alto-basso”, un “chiaro-scuro”, un centro attenzionale, consente non di “lavorare”, ma di svolgere una “attività”, di agire senza temere “l’errore”, e di accogliere, con maggiore rassegnazione, anche segni “accidentali” che nessun autocontrollo garantisce di evitare.

Al vantaggio offerto dalla possibilità di rispondere prontamente, puntualmente e con professionalità a richieste specifiche della committenza, dal formato alla tecnica, dal soggetto al taglio compositivo; alla possibilità, quindi, di permettere un’agevole risposta a richieste di mercato con un’offerta “su misura”, si oppone la difficoltà di gestire la necessità di lavoro in assenza di committenze. L’abitudine alla rendita da lavoro professionale e l’organizzazione stessa dello studio, impongono un fare che potrebbe inaridirsi o indirizzarsi altrimenti, se la committenza diventasse sporadica.
Raramente, poi, capitano committenze illuminate che, per stima e rispetto della libertà creativa dell’artista, concedono “carta bianca”. La committenza spesso presenta necessità encomiastica, celebrativa e documentaria, per scadenze ed anniversari che, rivolgendosi al passato, alle proprie origini, meglio accolgono - quando non pretendono - forme d’espressione collaudate, nel solco di una tradizione che non comporti rischi di novità, che potrebbero essere intese in contraddizione alle loro necessità.

In sintonia con questa entra la cultura dell’operatore che, spesso, iniziando per motivi di studio a lavorare “alla maniera di...”, finisce con l’entrare in un circolo vizioso che, portandolo all’emulazione e poi al desiderio - se non di superare il modello, di farsene vivente operativo testimone - lo ferma su posizioni storicamente e linguisticamente definite, e perciò, di per sé, conservatrici nei soggetti e nei modi di rappresentarli. Gli esempi preponderanti di riferimento, negli operatori scolastici ed artistici che mi circondano, non superano, per la calcografia, con le scarse eccezioni, il 1800 risultando, al confronto, ancora rivoluzionario un Morandi e dissacranti certe pagine di Bartolini!

POLIFILO, 2010. Bulino su Plexiglas, 380 x 260

Ai problemi economici, acuiti dalla difficoltà di accettare ed adottare un’organizzazione di lavoro che preveda immagini da tradurre, per esecuzioni in ogni caso appetibili e ben inserite nel solco di una tradizione percettiva - che, nell’abilità della restituzione dell’evidenza della immagine, trova maggior numero di possibilità di diffusione - s’oppone maggiore possibilità di indirizzare la necessità di attività nel campo della ricerca e del piacere, ove l’operatore agisce senza stressanti condizionamenti.

I condizionamenti, di chi opera intorno, emergono indesiderati nel lavoro; condizionamenti non tanto formali e stilistici, quanto legati alla forte illusorietà di opere che mostre e cataloghi presentano nell’ambito della calcografia Tutto ciò è verificabile con maggiore evidenza che in altre discipline, anche per il ruolo marginale che tale tecnica ha avuto nelle avanguardie storiche e per l’uso estemporaneo che molti ne fanno. Ruolo marginale, forse legato all’originale funzione della tecnica calcografica, che appunto nella riproduzione ha avuto ruolo primario e che potrebbe essere indicativo nell’uso, così sviluppato, che ancora conserva oggi.
All’originale funzione della calcografia, - in passato strumento tecnico all’avanguardia nella necessità di dare riproduzione ed illustrazione e poi superato dal progresso tecnologico, che via via ha sempre più reso veloce, precisa e conveniente questa funzione con lo sviluppo di strumenti meccanici ed elettronici - rimane l’odierna, diffusa possibilità d’esibizione di una grande abilità tecnica.

Occorre elaborare capacità e strategie che determinano quell’isolamento necessario ad avviare e mantenere, per il lungo periodo che mi richiede un bulino, la mente sgombra da tali illusorietà, che finiscono, altrimenti, con l’interagire con il mio auspicato desiderio di serenità operativa e di ricerca. Sono necessari grandi equilibrismi perché, non dovendo esserci, da parte di alcuno, la presunzione di essere nel giusto, non soccorre in aiuto, nel cercare soluzione al bisogno, la possibilità di risolvere la questione bollando, le cause di tale condizionamento, in modo radicale.
“Giusto vs sbagliato” non è manicheismo utilizzabile, stante che l’arte è l’universo dei possibili e che il reale è un incidente, un caso del possibile.

Certo è che il possibile di molti è ben radicato in ambiti di potere e di mercato, che tendono a non condividere tale universo e pretendono - spesso riuscendoci - di dare ad esso un centro di controllo, dal quale, in tanti modi, pilotarne l’espansione (o la contrazione ?) con intenti colonizzatori nella gestione d’ogni risorsa.
Maggio, 1997
OFFERTA AD AGNI, 2012. Bulino su Plexiglas (stampa alta), 380 x 260 















Il trascorrere del tempo comporta svolte che possono mutare l’organizzazione dello spazio in cui si opera. Spazio relazionale che varia per rapporti che si sospendono e per altri che vanno ad iniziare. Spazio fisico che ridimensiona i metri cubi in cui vivere, incidere e stampare matrici. Questo scenario, per altri versi comune un po’ a tutti, tratteggia forse il <<normale>> suo svolgersi ed impone <<normali>> ri-adeguamenti e ri-schieramenti, alla ricerca di necessari ri-equilibri operativi.
A tale fatale mutare, la mia identità ricerca continui adeguamenti, provando a resistere allo sterile fatalismo. Identità fatta in gran parte di segni scavati che, per circa vent’anni, ho ritrovato sulla matrice prodotti dallo scavo e calcograficamente stampati sulla carta.

Ora la necessità ridefinisce il segno a cominciare dall’azione fisica che lo produce. Ciò che il bulino incide non può più essere segno, ma la sua antitetica, complementare compagna: la superficie risparmiata.
Viaggio agli antipodi, dal nero al bianco, dalla materia all’antimateria, dal positivo al negativo, dalla figura allo sfondo, dalla polarità all’antipolarità, dal maschile al femminile. Come catodo-anodo, latitudine-longitudine, settentrione-meridione, oriente-occidente, boreale-australe, ascissa-ordinata, altre complementarietà direttamente accompagnano l’adeguamento che mi verificano lo specchio e la carta d’identità: castano-canuto, allievo-insegnante, celibe-coniugato, figlio-padre, normovedente-presbite (per ora).

L’essere è allora un’entità tratteggiata temporalmente che, come in ogni viaggio che aspira all’orientamento e alla traccia, può solo percorrersi lungo una sfera ed una serie di rapporti diametrali, ove il sole ed il segno, a volte, sorgono dal mare-matrice, altre vi tramontano. Altre ancora generano veglia operosa in sua mancanza e riposo-assenza in sua ininterrotta presenza.
Come il caldo estivo della natività dicembrina ed il freddo dell’assunzione agostana, il segno degli antipodi, deve cambiare rapporto con il contesto ambientale.

Mi ritrovo per necessità e conseguente scelta operativa nell’ambito tecnico e mentale della stampa alta, impropriamente della xilografia. Perché é anche già risultato che non è precisamente definibile, nell’ambito della grafica incisa, il nome che definisce la tecnica esecutiva. Potrebbe coniarsi, se già non lo si è fatto, plexigrafia (sull’esempio di linoleumgrafia, dal nome commerciale del materiale usato) o, più in generale, per evitare l’uso di marchi di fabbrica che renderebbero imprecisa l’indicazione con l’uso del prodotto di una altra ditta, plastigrafie come termine volgare, oppure, con termine tecnologicamente corretto resinografie o, più specificamente metacrilatografie.

Nell’altro emisfero la vita e gli strumenti per viverla non cambiano; a patto di riuscire a modificare l’abituale status mentale che mi permetta di governare i brividi e i comportamenti maturati dall’altra parte che, istintivamente, potrebbero ancora ripresentarsi a guidarmi e portare ad habitus fuori stagione.

Dalla mia confortano le indicazioni storiche, perché l’ambito in cui mi trovo non è inesplorato, ma il luogo d’origine della grafica incisa che poi, alla ricerca di nuove possibilità colonizzò altri territori, evolvendo agli antipodi.
L’alternarsi delle possibilità che impongono di indossare i panni ed il ruolo del <<nativo>>, comportano l’elaborazione nella nuova collocazione, di superare la regressione che potrebbe sorgere abbracciando i motivi che hanno segnato storicamente il successo della tecnica calcografica sul quella xilografica, accettando la resa di molti al segno inciso, alla <<modernità>> della diretta determinazione della traccia.
Il termine modernità ha comunque cessato, dai primi del ‘900, di avere gran pertinenza nell’ambito incisorio, avendo, anche la calcografia, perso progressivamente appeal nell’ambito della modernità, che ha sempre puntato a sviluppare tecniche e tecnologie grafiche sempre più veloci, colorate, ricettive ed accoglienti.
Cosciente dunque che tale isolamento è proprio di tutta la grafica incisa, penso mi rimangano maggiori possibilità di ricerca quanto maggiore può apparire scarsamente appetibile il contesto tecnico-operativo.

Rifiutando, in scarsa, ma buona compagnia, la facile e banale identificazione tra modernità – strumentazione e tecnica della modernità – conscio che non siano la scelta e l’uso dello strumento a connotarla, ma solo la possibilità di lasciare tracce che trovino, tra i contemporanei, possibilità di lettura ed integrazione – rimango determinato nella convinzione positiva dell’apertura a ogni possibilità operativa.
Maggio, 2005

LA RONDINE DI THOMAS TENTA IL RITORNO, 2013. Bulino su Plexiglas (stampa alta), 380 x 260